La commedia dell'arte

La commedia dell'arte

è nata in Italia nel XVI secolo e rimasta popolare sino al XVIII secolo. Non si trattava di un genere di rappresentazione teatrale, bensì di una diversa modalità di produzione degli spettacoli. Le rappresentazioni non erano basate su testi scritti ma dei canovacci detti anche scenari, i primi tempi erano tenute all'aperto con una scenografia fatta di pochi oggetti. Le compagnie erano composte da dieci persone: otto uomini e due donne. All'estero era conosciuta come "Commedia italiana".
Commedianti italiani e francesi

La definizione di "arte", che significava "mestiere", veniva identificata anche con altri nomi: commedia all'improvviso, commedia a braccio o commedia degli Zanni.

La prima volta che s'incontra la definizione di commedia dell'arte è nel 1750 nella commedia Il teatro comico di Carlo Goldoni. L'autore veneziano parla di quegli attori che recitano "le commedie dell'arte" usando delle maschere e improvvisano le loro parti, riferendosi al coinvolgimento di attori professionisti (per la prima volta nel Teatro Occidentale abbiamo compagnie di attori professionisti, non più dunque dilettanti), ed usa la parola "arte" nell'accezione di professione, mestiere, ovvero l'insieme di quanti esercitano tale professione. Commedia dell'arte dunque come "commedia della professione" o "dei professionisti". In effetti in italiano il termine "arte" aveva due significati: quello di opera dell'ingegno ma anche quello di mestiere, lavoro, professione (le Corporazioni delle arti e mestieri).

La Commedia «dell'arte» si chiamò così, perché i suoi attori, per la prima volta dopo un millennio e più, erano attori « di mestiere » . Nel Medioevo e oltre, salvo i rari isolati istrioni cui s'è accennato, il Dramma sacro aveva avuto per attori i chierici, i membri di corporazioni artigiane, i giovanetti di apposite compagnie religiose o volontari studenti, accademici, dilettanti d'assortita provenienza (il Ruzzante, agiato e colto borghese, era un dilettante). Invece i comici dell'arte, costituiti in regolari compagnie, recitano per tutto l'anno a fine di lucro, sono veri e propri professionisti, metodicamente addestrati al loro ufficio. Sono dicitori e declamatori, sono mimi, sono acrobati e giocolieri, sono cantori, sono musici, sono ballerini; nei casi migliori, hanno anche una preparazione culturale. I più famosi sono addirittura scrittori e trattatisti: ricordiamo di volo Flaminio Scala, Lelio; Francesco Andreini, Capitan Spavento; P. M. Cecchini, Frittellino; Nicolò Barberi, Beltrame; Domenico Biancolelli, Arlecchino; oltre al Gherardi, al Riccoboni, ecc. (Paradossalmente, ma non senza una parvenza di verità, Luigi Pirandello è arrivato a sostenere che essi non erano attori i quali sapevano scrivere, ma scrittori i quali sapevano recitare). Quale fu la scoperta essenziale dei comici dell'arte? che il pubblico, a teatro, viene attratto non tanto dall'autore, quanto dall'attore: Pertanto, di un testo scritto, ciò che in teatro importa è lo scheletro, è l'intrigo : ossia quella tal variazione che, lasciandola allo sviluppo degli interpreti, l'autore ha proposto sopra uno dei pochissimi temi, sempre gli stessi, dell'eterno repertorio comico, affidati a un piccolissimo numero di personaggi, sempre gli stessi. Questi personaggi sono le « maschere »: non tanto inventate quanto riscoperte, dai comici dell'arte, in una tradizione due volte millenaria; tradizione non solo delle farse (già medioevali, antiche, e antichissime) ma anche e soprattutto di quella commedia classica - attica, latina, italiana - che i letterati avevano così spesso diluito nella retorica della nobile veste, e che i comici dell'arte riportavano all'estemporanea ebbrezza della sua sostanza comica. Le primissime compagnie « dell'arte », costituitesi in Italia circa alla metà del Cinquecento, e presto ricercate all'estero, si componevano di non più di dieci o dodici attori, avendo ridotto a tal numero i personaggi dell'antica Commedia: ed erano finalmente (erano ormai tanti secoli che una creatura femminile non si era più vista sul palcoscenico) uomini e donne. Erano i due « vecchi »: Pantalone, il borbottone gretto, avaro, non di rado libidinoso, e sempre beffato; e il Dottore, caricatura del bestione pedante. Erano gli Innamorati, in genere non una ma più coppie ad intreccio multiplo: giovani e belli, questo va da sé, e che perciò recitavano senza maschera. erano i due «zanni» o buffoni biancovestiti, di solito servi: Brighella servo furbo e imbroglione, che varierà il costume mediante fregi atti a suggerire le linee d'una fantastica livrea; e Arlecchino, servo poltrone e sciocco, che (con la stragrande schiera dei derivati suoi) a poco a poco disporrà delle originali toppe multicolori. (E non occorre qui sostare sull'altro zanni, il più famoso di tutti, l'unico rimasto vestito di bianco, Pulcinella: non precisamente servo, ma esponente generico d'una plebe rotta a tutti i mestieri e a tutte le avventure, non escluse le più vergognose). C'erano inoltre le servette, Corallina, Colombina, Smeraldina, Ricciolina eccetera, destinate a contrapporre, mercé i loro sfrontati amori, le coppie degli innamorati ridicoli alle coppie degli innamorati nobili. C'era il millantatore e spaccone, Capitan Spavento, altro erede di tipi antichissimi che risalgono alle origini arcaiche della rappresentazione comica. In progresso di tempo, la schiera dei personaggi, specie secondari, aumentò, si complicò: tuttavia l'ossatura della compagnia « dell'arte » attraverso quasi tre secoli di vita rimase essenzialmente identica; e le sue principali maschere, pure passando dai più violenti e truci toni originari a motivi d'una maggiore raffinatezza, rimasero sempre le stesse: stilizzazioni dei motivi d'eterna comicità. Senonché l'ammirazione tradizionale per i comici italiani dell'arte ha puntato, sin dalle origini, non solo sulla loro personale bravura tecnica, ma sul fatto che tutti, dai grandissimi chiamati a recitare nelle corti ai saltimbanchi che si producevano nelle fiere e nelle piazze, non recitavano un testo imparato a memoria, bensì « improvvisavano ». E su questa affermazione, indubbiamente storica, ci sarebbe tuttavia da ridire: trattandosi d'una improvvisazione piuttosto relativa. Anche riconoscendo la singolare e, in certi casi, stupenda vena dell'attore, non va nascosto che essa veniva agevolata dal fatto che quell'attore, identificato per sempre con la sua maschera, sosteneva, per tutta la vita, una parte sola (rari sono i casi di attori eccellenti in due maschere diverse). A questo scopo, ogni attore aveva il suo zibaldone col suo bravo repertorio di lazzi, giochi scenici, motti, tirate, «pistolotti», « concetti », disperazioni, maledizioni, soliloqui, «spropositi», entrate e uscite, «chiusette» addirittura in versi; e, particolarmente agli Innamorati, «contrasti» dove la letteratura barocca,specie dal Seicento in poi, riprese decisamente il sopravvento. Questi repertori mandati a memoria, sarebbero serviti all'occasione propizia. Dunque, non già un testo tutto scritto: bensì uno schema, uno «scenario» sviluppato via via, dagli attori, a loro talento; ma attori preventivamente, minuziosamente concertati sotto la guida di un regista accortissimo, il « coràgo ». Attori improvvisati nel senso in cui sono improvvisatori, oggi, i pagliacci nei circhi (in ben diverse proporzioni); come lo erano ieri, dalle pubbliche scene italiane, talvolta un Musco, e assai più spesso un Petrolini. La cui grande abilità consisteva appunto nel cogliere, da una circostanza anche improvvisa piegata alla bisogna, il motto adeguato. Ma la cui suprema virtù fu una tale vitalità, soprattutto una tale ingenuità d'accenti, da far l'impressione che una rappresentazione approntata, premeditata, studiata fin nei minimi particolari, fosse invece una creazione estemporanea : vita vissuta e rivelata sul momento.